Il sogno : La grande foresta e gelatine viola
Tempo di lettura : 3 minutiNonostante il mio passato legame con la montagna, non sogno spesso grandi foreste. In questo sogno, però, mi trovo in un luogo meraviglioso: vivo in una splendida baita completamente immersa nel verde, probabilmente collocata in una enorme foresta alpina. Sono sposato, ma la persona con cui condivido la mia vita non è la mia vera moglie. Abbiamo anche una figlia di circa 10-12 anni ma l’entità del sogno non è la mia vera figlia.
La vita scorre tranquilla, finché un giorno accade qualcosa di strano: quella che nel sogno è mia moglie scompare improvvisamente. All’inizio non mi preoccupo né la cerco subito. Passano un paio di giorni e poi la ritrovo, nascosta in uno sgabuzzino che sembra trovarsi in salotto. Quando la vedo, rimango inorridito: non è più umana, si è trasformata in una gigantesca caramella di gelatina. È viola, ha un volto screpolato e tubi che le spuntano dalla testa, come un Borg di Star Trek. Solo adesso realizzo che lei non è mai stata davvero umana.

Cerco di vendere la casa, ma nessuno vuole acquistarla. Alla fine, in accordo con le autorità, decido di distruggere il bozzolo alieno di gelatina, e così facciamo. Tuttavia, pochi giorni dopo, mia moglie “ritorna”. Mi rendo conto che l’essere alieno si è clonato e ha disseminato duplicati di sé sotto terra. È troppo. Mi arrabbio e capisco che il bosco è ormai infestato da questi alieni. Decido di andarmene, portando con me mio figlio.
Salgo in macchina e imbocco la strada che scende verso valle, attraversando il bosco. Dopo la prima curva, mi ritrovo in un luogo surreale ai margini della foresta: è un misto tra una struttura governativa e una prigione per detenuti oppure è un parco divertimenti. Lascio mia figlia in macchina e mi dirigo verso l’ingresso della struttura.
L’edificio dall’esterno ricorda quello antistante il parco della dove da bambino trascorrevo le giornate giocando. Mi volto un istante per controllare mio figlio, ma al suo posto vedo me stesso da piccolo, che pedalo spensierato sul mio vecchio biciclino azzurro dell’Attala. Poco distante, mia madre è seduta su una panchina, giovane e serena come allora, immersa nella lettura di un giornale. Ogni dettaglio sembra riportarmi ai ricordi nitidi della mia infanzia. Rompendo ogni esitazione, entro nella struttura. È enorme, opprimente, con stanze di cemento scuro. Incontro due uomini che cercano di vendermi qualcosa, ma non voglio avere nulla a che fare con loro e cerco di andarmene. Loro mi ostacolano, ma riesco a uscire, arrabbiato, da quell’edificio.

Una volta fuori, guardo in alto: l’enorme palazzo di cemento grigio scuro incombe minaccioso. In un attimo, mi ritrovo all’interno, a cena con alcuni miei parenti e mia nonna. A un certo punto la nonna si alza e inizia a spazzare il pavimento. Decido che è arrivato il momento di andare a correre: mi vesto da podista, convinto che devo allenarmi per una maratona. Inizio a correre attorno ai giardini già visualizzati in precedenza, come un ossesso.
Mi sento in forma, ma all’improvviso una macchina della polizia locale mi taglia la strada senza volerlo. Li mando a quel paese, deciso a recuperare il tempo perso. Accelero, correndo a tutta velocità con falcate lunghe e sicure. Alla fine, torno al parcheggio dove avevo lasciato mio figlio. Ma la macchina non c’è più: al suo posto c’è un bus americano per il trasporto dei detenuti. Mio figlio è dentro al veicolo e guarda un convoglio di nuovi carcerati che arriva. Poco dopo, i detenuti già presenti salgono sul bus per osservare meglio i nuovi arrivati. Tutto sembra stranamente festoso, come se ci trovassimo in un campo giochi. L’atmosfera è allegra, quasi surreale. Guardo verso la strada da cui ero arrivato con mio figlio e vedo che tutto si è trasformato in un parco divertimenti, con finti castelli e dondoli per bambini.
Il sogno si conclude in modo sfumato, e non ricordo come termina esattamente.

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